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17. giugno 2017

Il mantra dell'impatto sociale

 

 

 

 

Durante la propria assemblea nazionale, che si è tenuta a Bari il 16 e 17 giugno, il CNCA (Coordinamento Nazionale delle Comunità di Accoglienza) ha dedicato una sessione di lavoro al tema della valutazione dell’impatto sociale, che si è imposto all’attenzione del dibattito italiano in occasione dell’approvazione della legge delega sulla riforma del terzo settore (legge 106/2016). Per l’occasione - su invito degli amici del CNCA pugliese - ho annotato qualche considerazione che riprendo qui in modo sintetico.

 Al momento della presentazione della legge è stato scritto - non senza enfasi - che l’esigenza di misurare il valore sociale prodotto dalle organizzazioni del terzo settore si presentava come uno dei perni su cui ruota la riforma.

La norma, in verità, dopo averne dato una sobria definizione (per valutazione dell'impatto sociale si intende la valutazione qualitativa e quantitativa, sul breve, medio e lungo periodo, degli effetti delle attività svolte sulla comunità di riferimento rispetto all'obiettivo individuato - art. 7, comma 3) collega l’argomento a tre ambiti specifici di attività: le procedure di affidamento dei servizi, cioè la regolazione del rapporto pubblico-privato; le attività di vigilanza, monitoraggio e controllo; l’accesso alle misure fiscali di favore.

Non è poco, ma si tratta di argomenti non del tutto nuovi per il dibattito sul futuro del terzo settore italiano.

 

1. L’attività di regolazione è uno dei ambiti sui quali da tempo si registra il massimo grado di criticità: da una parte l’imperativo categorico del contenimento della spesa e del tenace tecnicismo amministrativo (codice degli appalti, linee guida ANAC, accreditamento, burocrazia), dall’altra la diffusione pervasiva dei fenomeni di isomorfismo organizzativo che condannano le organizzazioni di terzo settore alla marginalità. Su questo punto i decreti legislativi di attuazione della riforma non dicono sostanzialmente nulla: nella sezione dedicata ai rapporti tra terzo settore ed enti pubblici ci si limita alla solita distinzione tra attività di co-progettazione e attività di co-programmazione.

 

2. Per quanto riguarda le attività di monitoraggio e controllo i decreti attribuiscono la funzione alle reti nazionali, in sostanziale autonomia nell'ambito di criteri definiti dalle Linee guida in via di emanzione; ma le organizzazioni di terzo settore presentano ormai un grado di eterogeneità tale (G. Moro, 2014) da rendere complessa - se non impossibile - la definizione di criteri specifici, che rischierebbero di escluderne qualcuna.

 

3. Sulla questione fiscale l’esigenza dichiarata dalla delega era quella di semplificare la babele di disposizioni presente nel nostro ordinamento. Dalle prime valutazioni (qui c’è il video delle audizioni del 5 giugno scorso in Commissione Affari Sociali alla Camera) sembra proprio che sia l’ambito sul quale i decreti legislativi appaiono meno chiari.

In sintesi, pur in attesa delle annunciate linee guida ministeriali, almeno dal punto di vista normativo il tema dell’impatto sociale per lo sviluppo del terzo settore appare del tutto marginale.

L’argomento però prescinde dalle indicazioni normative. Da tempo esso è presente nel dibattito scientifico sul futuro delle organizzazioni non profit, almeno in due ambiti di discipline, che qui sinteticamente richiamiamo.

1. Il primo è quello delle discipline di economia aziendale, management e gestione delle imprese, che individua il paradigma del managerialismo come fattore di sviluppo delle organizzazioni.  In gran parte si tratta della conseguenza di un processo, più o meno governato,  che si sviluppa per effetto delle spinte neoliberiste che tendono a ridurre la componente pubblica e introdurre forti dosi di logica economico-manageriale nella gestione dei servizi. Per qualcuno questa lettura è frutto di un approccio ideologico, incapace di offrire soluzioni ai problemi del terzo settore.

In ogni caso ciò che appare innegabile è che il managerialismo produce tensioni importanti sui processi organizzativi delle organizzazioni di terzo settore che, per brevità, indichiamo in forma di antonimia: autonomia/dipendenza, concorrenza/condivisione, specializzazione/multidisciplinarietà, target/comunità e così via. Resta il fatto che la possibilità - o meno - di integrare logiche manageriali con logiche professionali (sociali) è argomento di sicuro interesse per lo studio e la ricerca (W. Tousijn, M. Dellavalle, 2017).

In questo ambito di discipline il tema della valutazione dell’impatto sociale trova una lunga tradizione e diverse indicazioni operative (G. Fiorentini, M.V. Bufali, E. Ricciuti, 2015).

2. Il secondo è quello riconducibile agli studiosi di economia civile, che da almeno un ventennio propongono al terzo settore italiano (più precisamente, alla parte imprenditoriale del terzo settore, l’impresa sociale nelle sue diverse forme) un ruolo attivo nella fase di passaggio da un modello di welfare state tradizionale, redistributivo, ad un modello di welfare society (o mix, o civile, che dir si voglia) ispirato al paradigma sussidiario, che superi la dicotomia pubblico-privato, allentando la dipendenza dalle risorse pubbliche e assecondando la tendenza a sviluppare la quantità di beni e servizi venduti direttamente sul mercato.

Anche loro giungono ad avanzare proposte di tipo operativo (S. Zamagni, P. Venturi, S. Rago, 2016), la cui declinazione fa largo utilizzo di richiami a temi e argomenti non estranei alla sensibilità culturale di una parte rilevante del mondo delle imprese sociali italiano:

- il ruolo centrale della comunità;

- l’opzione per processi di tipo inclusivo (partecipazione, co-produzione);

- il rispetto per il principio di democraticità;

- il rispetto della dimensione identitaria (solidarietà, mutualismo, ecc.).

 Si tratta, per stessa ammissione degli autori, delle prime considerazioni di una proposta operativa che merita certamente analisi più approfondite, adeguate alle caratteristiche delle diverse organizzazioni.

In ogni caso è consigliabile che la valutazione dell’impatto sociale, per attività complesse come quelle svolte dalle organizzazioni di terzo settore, frutto di opzioni di valore anche molto differenti tra loro, faccia  riferimento a metodi diversi, liberamente scelti dalle stesse organizzazioni, insieme agli attori del sistema di interessi nel quale le organizzazioni si muovono e agiscono.

Ciò che è rilevante - in una prospettiva costruttivista - è il senso che tale strumento assume per l’organizzazione che lo adotta. Appare improbabile che esso possa discendere da una previsione normativa.

Più probabile che esso sia il risultato di un forte investimento culturale sul significato più autentico della propria vocazione sociale, economica e politica.   

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