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08. gennaio 2015

Volontariato e innovazione sociale

Scrive Riccardo Luna nel suo Cambiamo tutto! La rivoluzione degli innovatori: “Se quindi gli innovatori sociali sono volontari (…) non è vero però il contrario: i volontari di solito non sono anche innovatori.” (pag. 56). Un’affermazione netta e perentoria, che Luna spiega anche con esempi concreti, facendo riferimento a principi e pratiche di collaborazione, di condivisione e reciprocità, che pur non estranee alla tradizione culturale della solidarietà organizzata, sembrano effettivamente uscire indebolite dal lungo travaglio identitario del volontariato italiano. Questi valori e queste pratiche sembrano oggi affermarsi con maggior vigore tra gli innovatori sociali figli della cultura digitale di massa, capaci di reagire alla crisi con grande impegno e generosità. Per citare ancora Luna, si tratta di un vasto movimento di persone, di solito giovani o giovanissimi, che non aspettano di poter cambiare un giorno il mondo, lo stanno già facendo. Condividendo le proprie conoscenze, inventandosi un lavoro nuovo, cambiando le istituzioni, sperimentando forme di economia alternativa. Rinvio alla lettura del libro per gli approfondimenti sul tema. 

Quel che mi preme qui discutere è il rapporto tra volontariato e innovazione sociale: è vero che il mondo del volontariato è scarsamente innovativo? E se è vero, perché? Nel bel saggio che ha scritto per il numero monografico di Sociologia e Ricerca Sociale dedicato alle dinamiche e ai processi storico-sociali del volontariato in Italia, Gerardo Pastore richiama alla memoria il processo di mobilitazione sociale del nostro Paese legato alle grandi svolte sociali, culturali e politiche degli anni ’70. E’ certamente in quel contesto che maturano le ragioni del progressivo, sia pur mai compiuto integralmente, affrancarsi del volontariato italiano dai residui di una cultura a forte caratterizzazione assistenzialistica. E’ la fase del cambiamento, dello sviluppo quantitativo e qualitativo del volontariato, cui si accompagna il vivace dibattito sulla legislazione di settore, che porterà poi all’approvazione della legge 266 nel 1991. 

E’ un volontariato che cresce nel numero delle organizzazioni, delle attività, nel più generale sviluppo del terzo settore italiano. Cresce il volontariato e si allarga anche l’interdipendenza tra questo mondo e quello delle istituzioni pubbliche: una rapida e inarrestabile trasformazione, in gran parte legata anche ai tentativi di riforma - anche questi perennemente incompiuti - del welfare italiano. E’ la fase della cosiddetta professionalizzazione del volontariato, della specializzazione, della progressiva istituzionalizzazione e, insieme, della dipendenza dai finanziamenti pubblici, soprattutto tra le organizzazioni che si occupano di welfare, servizi e politiche sociali ed educative. E’ possibile leggere in questa parabola le tracce di una deriva conservatrice delle pratiche solidaristiche. Dopo il trionfo, il declino (Salvini, 2011). Un decadimento e una dinamica che non riguardano i numeri del fenomeno, in costante crescita, almeno dal punto di vista delle organizzazioni, ma la progressiva trasformazione delle caratteristiche essenziali del volontariato organizzato. Alcuni di questi caratteri sono evidenti, ad esempio, nella difficoltà di fare rete, nella sovrapposizione d’interventi nelle stesse aree di attività e negli stessi territori, secondo logiche di competizione nell’accesso alle risorse pubbliche più che di collaborazione e condivisione. “Il declino del volontariato - è sempre Salvini che scrive – è segnalato dalla tendenza ad assumere una natura prettamente gestionale, a rendersi dipendente da fonti economiche pubbliche, ad assecondare, magari obtorto collo, gli effetti della professionalizzazione dell’azione volontaria e la subalternità acritica rispetto ai soggetti politico-istituzionali”.

Se questa lettura del processo, come a me pare, coglie nel segno, è possibile affermare e confermare lo scarto d’innovazione sociale del volontariato dei giorni nostri. Soffocato da una parte dalla pressione crescente della domanda di cura, di tutela, di assistenza, dall’altra dalla costante riduzione dei finanziamenti pubblici destinati ai servizi, il volontariato sociale rischia di ritrovarsi in un angolo cieco, ripiegato nella propria frustrazione, ammutolito dalla violenza della crisi. E’ un deficit di politica, certamente, ma anche d’innovazione. E le due cose sono molto più legate di quanto non appaia. E’ importante quindi che il mondo del volontariato si apra all’innovazione sociale, sul piano delle pratiche, dei processi organizzativi, delle attività concrete. Superando i limiti dell’autoreferenzialità, attingendo a culture e processi apparentemente distanti, imparando ad adottare prospettive plurali di analisi dei problemi, pratiche riflessive, divergenti dal senso comune.

E’ un terreno di ricerca e di lavoro sul quale qualcuno, ancora in modo isolato, si sta avviando, con risultati incoraggianti. Dovrebbe diventare pratica comune. E' auspicabile che su questo terreno si possa sviluppare un’iniziativa dei Centri di servizio per il volontariato, orientata a qualificare l’attività delle organizzazioni di volontariato pugliesi. Un’esperienza collettiva, generativa, agita con rinnovato impegno e generosità, proiettata al futuro, che parli soprattutto alle generazioni più giovani. 

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