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22. luglio 2012

La costruzione sociale dei diritti dell’infanzia

Il tema della tutela dei diritti dell’infanzia è stato al centro del dibattito della prima edizione della Summer School del Gruppo Abele, organizzata a Roma la settimana scorsa. Operatori dei servizi della giustizia minorile, educatori, insegnanti e docenti universitari si sono confrontati per cinque giorni, cercando di tradurre in prassi operative i principi giuridici della convenzione internazionale dei diritti dell’infanzia. Pur nei limiti del suo etnocentrismo, della sua pretesa universalistica, la Convenzione resta un prodotto pregevole della cultura giuridica del Novecento e un valido contributo alla costruzione di ipotesi di lavoro per gli operatori dei servizi educativi, a patto che quei diritti diventino viventi, che si attenui la retorica celebrativa e si individuino gli spazi e gli strumenti effettivi per la loro tutela.

Una discussione intensa che non si è limitata alla denuncia, pur sacrosanta, della costante riduzione delle risorse finanziarie destinate ai servizi, ma ha cercato di offrire al dibattito pubblico qualche orientamento di merito. Provo a mettere ordine nei miei appunti.

 

Uno. La tutela dei diritti si sostanzia nella relazione. Per tutelare i diritti non bastano buone leggi, non sono sufficienti buoni programmi, piani e regolamenti, occorre investire in contesti relazionali nei quali concretamente i bambini possano essere considerati soggetti a pieno titolo, piuttosto che oggetti di un pensiero adultocentrico. La relazione educativa è relazione intersoggettiva, tra soggetti, tra pensieri, tra storie. Il pensiero del bambino è pensiero critico per eccellenza, ragione principale del suo occultamento, della sua rimozione. Allora il lavoro educativo è, deve essere, assunzione piena di quel pensiero, riconoscimento della soggettività, restituzione del valore alla storia altrui. Anche quando quella storia è storia di sofferenza, di disagio, di difficoltà. Dobbiamo imparare a decostruire il nostro linguaggio, a cominciare da quello professionale, per riconoscere quelle storie, per dar loro cittadinanza.

 

Due. La tutela dei diritti è processo plurale, che chiama in gioco luoghi, linguaggi, organizzazioni e professioni diverse. Ciascuno di questi luoghi deve superare lo spazio angusto del proprio specialismo, della propria separatezza. Questo limite, che è tipico dell’agire professionale non orientato alla riflessività, che non si concede lo spazio del confronto, che non abita la consapevolezza del proprio confine, sembra accentuarsi con la crisi economico-finanziaria. Reagiamo difendendoci. Alzando i muri intorno a noi. Invece andrebbe proprio adesso riscoperto il piacere del confronto, della condivisione, della costruzione comune di una prospettiva possibile. La scuola, le comunità, i servizi, le famiglie che reagiscono difendendosi, chiudendosi in se stesse, rischiano di cronicizzare le difficoltà, piuttosto che provare a superarle. Questa opzione al contrario richiede una grande disponibilità all’ascolto, alla contaminazione, alla relazione. I diritti sono costruzioni sociali plurali, che possono concretizzarsi solo dal confronto tra saperi, tra punti di vista, tra sguardi diversi.

 

Tre. La tutela dei diritti è pratica di ricerca. E’ necessario che i nostri servizi, le nostre organizzazioni, tornino a essere laboratori di ricerca. Laboratori di società. Nella quotidianità stanca delle nostre consuetudini non troveremo più le risposte alle domande che ci interrogano, ai dubbi che ci inquietano. Anche qui dobbiamo imparare dai bambini: dove c’è noia, non c’è apprendimento. Se il lavoro ci annoia, se le nostre parole ci sembrano inerti, spente, ripetitive, allora quello è il segnale del cambiamento necessario, del bisogno di ricerca, di innovazione. Quello è il momento di aprirsi al nuovo, al diverso, all’altro, con fiducia. E’ il momento di restituire alle parole l’alone della loro densità culturale, la pregnanza del loro significato.

 

Nelle celebrazioni rituali della giornata dei diritti dell’infanzia amiamo ripetere retoricamente che nei bambini depositiamo la speranza di un futuro diverso. Dovremmo invece consapevolmente, e più concretamente, assumere il loro pensiero come possibile criterio di lettura del presente, abituarci a farlo più spesso, a cominciare dalle nostre pratiche personali e professionali.

Potremmo trovare lì, sorprendentemente, tante risposte alle nostre domande.

 

tagPlaceholderTag: 2012, welfare
Commenti: 1
  • #1

    Linda (mercoledì, 29 agosto 2012 15:53)

    Non avendo contatto facebook lo scrivo qui "Mi piace" ed in particolare:
    "Dobbiamo imparare a decostruire il nostro linguaggio, a cominciare da quello professionale"

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